ROMA – Il mondo della moda ha sposato la filosofia green già da anni, ma oggi crescono nuove istanze anti-consumistiche. In anno solare, vengono prodotti tra gli 80 e i 100 miliardi di nuovi capi di abbigliamento. L’abitudine dei consumatori si è spostata al ribasso: invece di comprare un buon abito, di qualità e durevole, si acquistano tonnellate di abiti scadenti, poco costosi, ma fatti spesso anche con materiali nocivi per la salute. Se un numero così elevato di vestiti e accessori entra sul mercato, quanti ne vengono gettati via? È questa la domanda che si è posta la Commissione Europea e i dati sono allarmanti: annualmente, i rifiuti da calzature e abbigliamento ammonterebbero a 5,2 milioni di tonnellate. Parliamo di 12 chili per ogni cittadino europeo. Ecco perché oggi si è aperto un importante dibattito sul passaggio dal fast fashion alla moda sostenibile. Tutti i grandi brand oggi fanno più attenzione al riciclo, a processi produttivi più attenti all’ambiente ed esprimono una maggiore responsabilità sociale.
Molti abiti scadenti hanno una serie di materiali difficilmente riciclabili e ancora più complicati da smaltire con la raccolta differenziata: è chiaro che c’è bisogno di un cambio di passo. Per questo motivo nasce “Slow Fiber”, un progetto sviluppato dall’incontro di Slow Food Italia e 22 realtà italiane della filiera tessile e dell’arredamento che, attraverso i loro processi produttivi, vogliono rappresentare un cambiamento positivo grazie alla creazione di prodotti belli, sani, puliti, giusti e durevoli. Il settore tessile è oggi il quarto più inquinante d’Europa, oltre a essere tra i tre peggiori nell’abuso di acqua e tra i primi cinque per le emissioni di gas serra. Alcuni studi hanno inoltre rilevato che per ogni persona vengono buttati ogni anno 11 kg di rifiuti di origine tessile. Di recente lo studio dell’équipe del professor Carlo Foresta, dell’Università di Padova ci ha svelato quanto siano pericolosi i PFAS che vengono rilasciati nell’ambiente durante ciclo produttivo di questo settore industriale: la salute di chi abita nelle vicinanze di queste industrie è a rischio.
“Slow Fiber si pone come obiettivo il cambiamento produttivo e culturale nel settore tessile, rendendo tutta la filiera più sostenibile e promuovendo un consumo più consapevole e responsabile- spiegano i responsabili del progetto – La rete vuole divulgare la conoscenza dell’impatto che i prodotti tessili hanno sull’ambiente, sui lavoratori della filiera e sulla salute dei consumatori. Slow Fiber sostiene, insieme a Slow Food, campagne di sensibilizzazione attraverso la testimonianza e la partecipazione diretta delle aziende che quotidianamente operano nel rispetto della sostenibilità ambientale e sociale”. Si cambia marcia, insomma: la produzione diventa buona, pulita, sana e durevole. In altre parole si produce di meno, ma con maggiore qualità e capacità di durare nel tempo.
Hanno aderito al progetto brand prestigiosi: Vitale Barberis Canonico, Botto Giuseppe e Figli, Albini, aziende che generano circa un miliardo complessivo di fatturato. Il progetto non mira a una semplice certificazione: è un cambiamento radicale. Tra i requisiti richiesti ci sono i divieti di dare in subappalto più del 30% della produzione negli ultimi tre anni; la necessità di un’attività almeno decennale con sede legale e operativa nel territorio di riferimento, investimenti in sostenibilità per almeno l’1% del fatturato annuo, usare almeno il 50% di materie prime certificate e avere almeno il 70% di fornitori di prossimità, un certo tasso di turnover e monitorare la parità di genere. I pilastri sono riciclo ed economia circolare, ma sopratutto capacità di immettere sul mercato prodotti durevoli, di qualità e con tessuti che fanno ricorso il meno possibile alla chimica, eliminando i prodotti dannosi per la salute e l’ambiente.